Molto prima della sua scoperta, il nome Antarktikos era stato coniato dai filosofi greci del VI secolo a.C.

Con l’aggettivo Arktikos (dal greco Arktos che significa orso) si indicava l’estremo nord del pianeta perché la Stella polare, che indica il nord, appartiene alla costellazione dell’Orsa Minore. Di conseguenza all’estremo sud doveva esistere un continente che per contrapposizione fu chiamato Antarktikos. Ai filosofi spetta il merito di avere immaginato per primi sia la sfericità della Terra (Pitagora) sia l’esistenza di un continente australe, ritenuto necessario per equilibrare le masse continentali esistenti nell’emisfero boreale (Aristotile).

Il loro pensiero, ripreso da Claudio Tolomeo di Alessandria (II secolo d.C.), fu poi tradotto in latino e in francese attorno al 1410, riportando alla luce il concetto di sfericità della Terra seppellito durante il Medio Evo, da cui ebbe inizio un nuovo impulso ai viaggi di esplorazione. Misteriosa rimane la mappa del Piri Reis del 1513 che descrive in maniera abbastanza dettagliata le coste del continente antartico senza che vi siano testimonianze di esplorazioni a quel tempo.

Comunque per alcuni secoli ancora l’Antartide sarebbe rimasto indicato sulle carte geografiche come Terra Australis Incognita. Mawson realizzò una dettagliata mappa del continente durante il suo viaggio verso il Polo Sud magnetico nel 1909.

L’Italia in Antartide prima del PNRA

Durante il XIX secolo le maggiori potenze europee, particolarmente l’Inghilterra, la Francia e il Belgio, portarono avanti un’importante politica di espansione coloniale che mirava ad assicurarsi materie prime, mercati e avamposti nelle terre più lontane. Non furono esenti da questi obiettivi neppure le coste antartiche, solo parzialmente note e tuttavia divenute accessibili grazie ai progressi nel campo della navigazione. Anche lo Zar di Russia e il re di Norvegia mandarono spedizioni geografiche mentre balenieri e cacciatori di foche delle maggiori nazioni sudamericane e degli Stati Uniti visitavano sistematicamente quelle acque per evidenti ragioni economiche.

L’Italia era in quel tempo ancora alla ricerca di un’unità e identità nazionali e nessuno degli Stati italiani aveva sufficiente interesse verso quelle terre remote per organizzare una propria attività. Tuttavia un’indubbia matrice culturale fece sì che geografi e cartografi italiani si interessassero all’Antartide a livello poco più che individuale, in contatto epistolare con i colleghi stranieri e a beneficio di un ristretto pubblico colto. La prima traduzione italiana dei viaggi di Cook è del 1830 mentre la “Carta Generale dell’Antartica” (prima carta italiana, di B. Marzolla) è del 1842.

Gli italiani parteciparono alle prime missioni antartiche per lo più come membri di spedizioni e/o con l’appoggio di altri Paesi. Giacomo Bove, alla fine del 1800 cercò inutilmente il finanziamento per una spedizione antartica italiana e ne eseguì poi una nelle isole subantartiche per conto dell’Argentina.

Pierre Dayné, una guida alpina valdostana, fu probabilmente il primo italiano a passare l’inverno in Antartide. Era la spedizione 1903-05 del francese Charcot.

Non era invece esattamente un italiano bensì un tasmaniano di origini italiane Luigi Bernacchi che, medico della spedizione Borchgrevinck, trascorse la notte polare dell’anno 1900. Attorno agli anni ’50 del XX secolo vi fu una spedizione cinematografica italiana che lavorò presso le basi cilene; il regista era Arturo Gemmiti.

Venne l’anno geofisico internazionale del 1957 e l’allora tenente di vascello Franco Faggioni eseguì misure sismiche presso la Base Scott. Negli stessi anni un appassionato studioso di Artide e Antartide, Silvio Zavatti, cercò di organizzare una spedizione nazionale ma i tempi non erano maturi; riuscì comunque a visitare l’isola di Bouvet. Eravamo già nei primi anni ‘60 quando un gruppo italiano aggregato alla spedizione belga, eseguì un carotaggio di ghiaccio nella Terra della Regina Maud. Nel 1962 al geologo Ardito Desio fu possibile visitare le Valli Secche, nelle vicinanze della Base americana McMurdo, ed anche la Stazione al Polo Sud.

Anche l’alpinista Carlo Mauri visitò la Valli Secche qualche anno dopo (1967) ospite della missione neozelandese. Tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70 un intraprendente ufficiale della marina mercantile, Giovanni Ajmone Cat, fece due viaggi dall’Italia alla Penisola Antartica a bordo di una feluca di cui era progettista e comandante, oltre che proprietario. Era la prima volta che un‘imbarcazione battente bandiera italiana navigava in acque antartiche e l’impresa, considerando le caratteristiche dell’imbarcazione e le difficoltà dell’itinerario, ha ancor oggi dell’incredibile.

La sensibilità italiana nei riguardi dell’Antartide stava dunque maturando in quegli anni e si cominciarono a registrare i primi interventi istituzionali: il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) organizzò tre interventi, sia pure limitati nella durata e nelle risorse, che tuttavia risultarono determinanti per la maturazione di un impegno governativo italiano. Questo sarà attuato, con il nome di PNRA, negli anni ’80. Le spedizioni del CNR si dovettero appoggiare evidentemente alla logistica di un altro Paese (NZ), si svilupparono nella Terra Vittoria (1968-69, 1972-73 e 1975- 76) ed ebbero un carattere non solo scientifico ma anche alpinistico.

Negli stessi anni Renato Cepparo, imprenditore milanese, ideava ed organizzava una spedizione privata del tutto autosufficiente con le finalità di eseguire misure scientifiche e realizzare un rifugio permanente. Era l’estate australe 1975-76. Quindici uomini a bordo di una nave norvegese da 900 tonnellate si diressero alla King George Island (Penisola Antartica) e qui venne eretta la base dedicata a Giacomo Bove. Che però ebbe vita breve, perché poco dopo un gruppo argentino provvide a demolirla, forse non avendo gradito quell’insediamento in un’area soggetta a rivendicazioni nazionali.